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Quando non conosco il significato o l’origine di una parola apro il vocabolario.
Stamattina, in particolare, ho pensato ad una parola della quale conosco il significato, ma volevo capirne l’origine, la data di nascita. Perché le parole nascono, come le persone, per un motivo ben preciso.
Il Devoto-Oli, uno dei migliori vocabolari italiani in circolazione, mi viene in aiuto e mi dice che la parola cui sto pensando da stamane è ‘qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuare la subordinazione e di annientare l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte’.
Lo avrete facilmente capito, la parola cui penso oggi è #femminicidio.
Ho scoperto che in Inghilterra il termine femicide veniva già utilizzato nel 1801 per indicare l’uccisione di una donna e che la criminologa Diana Russell nel 1992 inserì la parola femminicidio in un suo libro, e con essa identificò una categoria criminologica vera e propria, nella quale si contrapponeva l’uomo-carnefice alla donna-vittima.
Non sono riuscita a risalire al primo uso in italiano del termine femminicidio, ma da che me ne ricordi saranno almeno quindici anni che non passa giorno che non si senta pronunciare o non si legga questa parola.
Da quando nel 1999, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha dichiarato il 25 novembre Giornata Mondiale per l’Eliminazione delle Violenza sulle Donne e ha invitato governi, organizzazioni internazionali e ONG ad organizzare eventi in questa giornata per sensibilizzare l’opinione pubblica su questo tema.
Da quindici anni, insomma, il termine omicidio non basta più per indicare l’uccisione di una persona. Da quindici anni a questa parte, ma anche da molto prima probabilmente, si ritiene di dover distinguere anche verbalmente l’assassinio di una donna rispetto a quello di un uomo.
Perché neanche per quanto riguarda la morte gli uomini e le donne sono alla pari, e bisogna sottolinearlo con una parola e con una ricorrenza mondiale.

Il 27 luglio del 2012 Elina Chauvet  utilizzò per la prima volta in un’installazione artistica pubblica davanti al consolato messicano di El Paso, in Texas, le scarpe rosse, per ricordare le centinaia di donne uccise nella città messicana di Juarez. Da quel giorno le scarpette rosse, dello stesso colore del sangue versato da tantissime donne in tutto il mondo, sono diventate il simbolo della Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne.

Qualche ‘omuncolo’ di poco conto mi dirà che si sta dando più importanza alla morte delle donne rispetto a quella degli uomini, perché per l’ omicidio (inteso come uccisione maschile) non ci sono ricorrenze specifiche, convegni, giornate mondiali, speciali tv, conferenze, incontri, dibattiti.
Qualche stupida femminista attaccherà i sopracitati omuncoli per rimetterli in riga utilizzando, in qualche caso, la stessa violenza della quale accusa un qualsiasi uomo-carnefice.
Un circolo vizioso dal quale non si esce…

Vorrei donne e uomini in grado di educare con l’esempio, l’arma più efficace di sempre, le giovanissime generazioni.
E punizioni serie e veloci per chi disattende le regole sociali e i diritti fondamentali di ogni uomo, fra i quali è primario quello alla vita.

E vorrei indossare le scarpe rosse solo perché sono un accessorio di gran moda, col quale sentirmi speciale, originale, sexy e spiritosa.
Femmina, insomma.
Donna.

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